Un Informatico in Zimbabwe

Salve.

Da qualche settimana sono tornato dallo Zimbabwe.

Tornato in Italia ho scritto un articolo che poi e’ stato pubblicato su marieclare online potete leggere l’articolo (con le foto) all’indirizzo: http://www.marieclaire.it/Lifestyle/Reportage-Zimbabwe-installare-il-wi-fi-in-Africa-all-ospedale-Luisa-Guidotti-un-ingegnere-racconta

Riporto comunque di seguito il testo.

Spero vi piaccia.

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Il tempo in Zimbabwe

Reportage: a Mutoko per installare il wi-fi in un ospedale di volontari italiani. E guardare la Via Lattea.

Mutoko aprile 2013. Sono le dieci di mattina, l’ospedale è in piena attività; la dottoressa chiama l’infermiere: «Rashirai!, Rashirai!». La mamma del bambino che sta visitando parla poco inglese e condurre un’intera visita in Shona stretto senza l’interprete non è certo sempre semplice. Io ho in mano un router wireless, è uno di quelli che sto configurando per ampliare la rete informatica dell’ospedale. Nel frattempo la dottoressa termina la visita: «Pindai!», ovvero il prossimo. Questa volta entra un uomo. Cammino tra i corridoi affollati da persone che aspettano ordinatamente in fila, davanti alla farmacia, e quando mi vedono mi salutano con un “Hello Doctor!”: sono un uomo bianco dentro un ospedale, devo essere per forza un dottore! Invece sono un ingegnere, probabilmente meno utile di un medico.

Tutta la vita in un dollaro. Sono le undici e mentre l’ospedale entra in pausa per il tè, io vado al mercato; il dollaro USD è pronto nella mia tasca, il pezzo da un dollaro, la valuta più usata. Non è un caso, tutto costa un dollaro: un cestino di pomodori? Un dollaro. Due avocado oppure qualche pugno di noccioline o le sigarette o persino una ricarica telefonica? Un dollaro. In Italia avevo scambiato gli euro in banconote da cento o cinquanta dollari, praticamente inutilizzabili, perché qui il resto è sempre un problema, ma una volta scambiati i dollari “pesanti” con un taglio massimo da dieci di solito si può vivere tranquilli senza il rischio di creare imbarazzo. La vita scorre lenta al Luisa Guidotti Hospital anche se c’è sempre un gran da fare per la dottoressa Marilena Pesaresi (dal 1981 inmissione a Mutoko) e per il dottore Massimo Migani, che si occupano in maniera stabile dell’ospedale. Sono le tredici e andiamo a pranzo: ho già provato la sadza (una polenta preparata con il mais pallido del luogo, accompagnata da una salsa e della carne di pollo) ma mangiarla ogni giorno a ogni pasto, come fanno quasi tutti quelli del posto, mi sta mettendo alla prova. Le variazioni sul tema non mancano, qui frutta e verdura sono biologici e a km zero: per necessità e non per scelta o moda. Sono le due di pomeriggio, i medici tornano a lavoro.

“Dio ha donato gli orologi agli Svizzeri, il tempo agli Africani”. Sono le quattro e tutti rincasano, tranne, naturalmente, gli infermieri e le infermiere di turno che rimangono nei reparti con i pazienti. Stanotte ci sarà un’emergenza, un uomo in gravi condizioni; il Professore Nigro verrà chiamato di persona, fino a casa, per intervenire. Non avevo mai vissuto dentro un ospedale da osservatore esterno per più di un giorno, e la mia prima esperienza è proprio qui in Zimbabwe. Eppure poco tempo mi basta per capire non solo i “classici” rapporti medico-paziente ma anche tutti i processi organizzativi e le difficoltà di operare in un Paese come questo. Stasera la via Lattea è chiarissima, non ricordo di aver mai visto un cielo così bello. Il compound, dove si svolge l’attività dell’ospedale acquista un altro aspetto grazie al tramonto che nasconde in pochi minuti il sole. C’è calma, sono le nove di sera e anche se sono qui da pochi giorni i ritmi di vita africani stanno già prendendo il sopravvento.

 

L’alba di un nuovo giorno (e mondo). È un nuovo giorno, sono le sette di mattina, il gallo canta già da molto tempo esattamente sotto la mia finestra; faccio colazione con latte, caffè e marmellata di guava, un frutto dal sapore unico che qualcuno dice simile a quello del pomodoro. Alle otto aspetto che i medici volontari, grazie ai quali sono qui, siano pronti. «Mamuka se!», le persone che lavorano qui mi conoscono da poco ma già mi salutano affettuosamente, «Come è stato il tuo risveglio?», mi chiedono in Shona, rispondo in un rituale di frasi botta-risposta mentre ci scambiamo grandi sorrisi. Alcune donne portano in testa cesti e borse mentre camminano verso l’ospedale; c’è una luce abbagliante e io, mentre cammino, non riesco a tenere alto lo sguardo perché mentre osservo i miei passi incontro gli abitanti silenziosi di queste terre, degli insetti bellissimi: farfalle colorate, bruchi dai colori sgargianti e millepiedi enormi che mi lasciano incantato. Come un bambino allo zoo.

 

 

Mi basta il tempo di capire. Oggi faccio qualche test della rete appena messa in funzione. Tutti sembrano entusiasti della possibilità di avere internet in molte zone del compound. C’è una voglia di modernità fortissima, mentre io mi sto un po’ affezionando alle strade sterrate, all’agricoltura mal organizzata, ai bambini che portano al pascolo mucche e caprette, al sole alto e splendente, allo scorrere del tempo. Fra qualche giorno tornerò a Milano, mentre il motivo della mia permanenza a Mutoko rimane qui un altro mese. Stavolta non vorrei che questa fosse un’esperienza. Perché la parola “esperienza” implica una fine, e qui a Mutoko non vorrei dover terminare un’esperienza. Questa volta vorrei avere il tempo di capire.